l'uomo che contava il tempo


In questo caldo agosto, nei pressi di Roma, Roman Opalka ha smesso di contare il tempo; avrebbe compiuto ottanta anni fra tre settimane.
Sia che si ami svisceratamente l'arte concettuale, o che la si trovi insopportabile, non si può non riconoscere ad Opalka la paternità del progetto più estremo, coerente, assoluto in questo campo. Un'opera claustrofobica e titanica che, giorno dopo giorno, per oltre quarant'anni, ha preparato metodicamente proprio l'incontro fra il suo autore e la morte.

Nel 1965 Opalka, nato in Francia da genitori polacchi, ha tracciato nell'angolo superiore sinistro di una tela il numero 1. Da allora, per tutti i giorni della vita, ha aggiunto numeri successivi, passando ad una nuova tela quando la precedente era terminata.

Tele tutte rigorosamente uguali, di cm. 196x135 (la dimensione della porta del suo studio), così come la calligrafia ed il colore dei numeri (il bianco). Solo una cosa è cambiata negli anni: il colore di fondo - dapprima il nero, poi schiarito dall'aggiunta lentissima e progressiva di velature di 1% di bianco, fino a raggiungere il totale bianco su bianco.




Dal 1972 Opalka introdusse una variante al suo rituale: ogni sera, a fine lavoro, scattava una fotrografia in bianco e nero del proprio volto - sempre nella stessa posa e con la stessa espressione, sempre in camicia bianca - e registrava la propria voce mentre elenca in polacco i numeri dipinti nella giornata.
Così al progressivo sbiancarsi delle tele corrisponde lo sbiadire di una fisionomia scavata e incanutita dalla vecchiaia, e di una voce sempre più anziana.
La sua prima tela si intitolava «Opalka. 1965/1-infinito»; le seguenti, naturalmente, si intitolano con la numerazione progressiva.




Ora il lavoro di Opalka è terminato; la testimonianza certosina dello sgretolamento dell'esistenza individuale (e quindi di qualunque esistenza) ha trovato compimento, anticipato dal biancore accecante di numeri bianchi invisibili su tele bianche...


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